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20 novembre

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Neuroscienze e responsabilità dell'individuo

Neuroscienze e responsabilità dell'individuo

È possibile che le neuroscienze ci facciano dubitare di essere responsabili delle nostre proprie azioni? Un famoso film del passato pone l’interrogativo nel modo più drammatico:

“Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos'è che sento urlare dentro al mio cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi sento urlare una voce, e io non la posso sentire!”

Sono parole di Hans Beckert, assassino seriale, che si difende davanti a una giuria di criminali che vogliono linciarlo. Si tratta del finale di un film di Fritz Lang, M. Il mostro di Düsseldorf, che nel 1931 seppe dar voce a un paradosso che sempre più occupa la discussione pubblica: il criminale afferma di non essere responsabile dei propri atti, invocando una distanza tra sé e qualcosa di incontrollabile che lo muove. Il paradosso consiste nel fatto che Beckert sta rispondendo dei propri atti, e dunque incarnando il significato della parola ‘responsabilità’; ma lo fa negando che le proprie azioni gli siano imputabili. Non è un caso che questo paradosso, con tutto il suo carico emotivo di pietà e ripugnanza, sia presentato sotto forma di un richiamo al cervello, piuttosto che all’interiorità. Già nell’Europa degli anni ‘30 le idee della psichiatria e della psicanalisi sui moventi inconsci erano ormai penetrate nella cultura popolare, dalla letteratura al cinema. Eppure i tempi per una comprensione delle basi cerebrali dell’inconscio non erano maturi, come aveva riconosciuto lo stesso Freud – il padre della psicoanalisi.

Oggi le cose sono cambiate, e appelli come quelli di Hans Beckert costituiscono materia di giurisprudenza penale. Le neuroscienze, grazie allo straordinario sviluppo delle tecniche di osservazione anatomo-fisiologica, ripropongono con decisione l’ipotesi di collegare l’attività cerebrale con le capacità dell’individuo, e di decretare l’incapacità di volere, parziale o totale, in caso di lesioni o condizionamenti genetici che influiscono sulle funzioni cerebrali. Il potenziale di queste tecniche consiste nel fatto che il giudizio sulle capacità individuali avviene indipendentemente dalla testimonianza diretta delle persone, che è notoriamente inaffidabile per il sospetto d’insincerità, ma anche per i limiti intrinseci della nostra autoconsapevolezza, che le scienze cognitive hanno messo sempre più in evidenza (ricordiamo la macchia cieca di cui abbiamo parlato nel primo testo della nostra rubrica). Simili diagnosi hanno portato di recente, anche in Italia, mediante la perizia di neuroscienziati forensi, a modificare sentenze penali in maniera prima impensabile. Esistono casi estremi, come l’anosognosia (l’inconsapevolezza dei propri deficit), che fa ripetere a un paziente di 33 anni con un’estesa lesione cerebrale le parole di Hans Beckert: “Offendo tutti i miei amici con le parolacce (…) Io non voglio. È il mio cervello che mi dice di farlo”. Ma è estremamente complesso stabilire in concreto in che misura le azioni siano condizionate. Se dalla finzione siamo passati alle aule dei tribunali, è tanto più urgente la domanda sulla portata – e sui limiti – di questo approccio scientifico ai moventi dell’azione umana. È in gioco il concetto di responsabilità, che costituisce un cardine dei nostri codici giuridici oltre che del senso comune: pertanto la questione di diritto chiama in causa la filosofia, poiché risolleva su nuove basi l’antica questione del libero arbitrio.

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